Grazie Adriano per questo bellissimo Diario del tuo viaggio! Siamo stati davvero contenti di averti rivisto e pubblichiamo volentieri il tuo racconto sul nostro blog. Grazie Ancora Renate e Saverio



È iniziata così

Sabato, 12 giugno 2021, ore 11.15. Esco di casa, Portonaccio, Largo Preneste, semaforo rosso. Acqua Bullicante, Appia Nuova, fonte Egeria, Appia Antica. Selciato e imprecazioni. Mai fidarsi dei navigatori, neanche di quelli specializzati. In effetti la mia nuova Gravel fiammante monta ruote sottili da velocità e ne darà prova più avanti, sulla Nettunense, verso il mare. Prima bisogna passare i Castelli però. Qualche pendio, il cambio va. 

Ed eccolo il mare, giù verso Latina, poi la pianura pontina, canali, viali alberati e tratti sterrati, pieni di sassi che fanno male alla mia bici. Immerso nella musica, mi accorgo di un rumore strano, la valigia lunga, quella buona, ha perso la presa sul portapacchi. La sistemo, ma il rumore continua. Ho perso una vite che fissa il portapacchi al telaio. Menomale che ho portato delle fascette, che come è noto risolvono ogni problema. Sistemerò più avanti, dopo Sabaudia, trovando per la strada un meccanico gentile. 

La Circe dorme sulla mia strada, prima di Sabaudia, è lì che evoca tempi antichissimi, leggende, miti.


Viali alberati, bonifica e ambienti che ricordano la bassa veneta o friulana. Dopo una ciclabile lungomare tutta blu e un passaggio a 40 all’ora sulla statale, eccola, la roccia di Terracina, si staglia enorme davanti a me. Sono arrivato, 10 km ancora e avrò percorso tutti i 126 km che un po’ mi preoccupavano, fino a stamattina, per via di un ginocchio che da qualche giorno si blocca. 

Penso che oggi sia un giorno importante, è una prima volta, non avevo mai fatto 126 km in bicicletta.

Monto la tenda, una nuotata, una doccia lunga, calda, morbida, sono pronto per la birra per aprire, un tonnarello con le vongole e un’altra birra per chiudere. Punto il mare, chiuso. Questa mania di chiudersi tutta italiana non l’ho mai capita. Non si può andare in spiaggia da questo campeggio-residence, enorme, con le roulotte chiuse sotto orrendi gazebo bianchi, con divani a U e televisori enormi. 

Non mi faccio abbattere, mi frego una sdraietta e guardo il mare. ‘Energia’ di Franco Battiato la sento a ripetizione, sono sereno e me la godo. Le zanzare e la stanchezza fanno il resto. Riporto la sdraietta al suo posto, giro a sinistra. Buio e rumore di onde, guardo in alto. 

Le stelle.

Campania maltrattata

Ieri conoscevo (più o meno) la strada. Oggi no, sono entusiasta. Mi alzo, qualche esercizio, non ero più abituato a dormire a terra. Devo rimediare un materassino, lo troverò per strada da un cinese a quattro euro. Prima di ripartire faccio una nuotata, il mare è bello e mi aiuta a rimettere a posto il corpo. Smonto la tenda preparo tutto, un caffè, l’acqua e sono pronto. Mi ferma un signore, mi racconta di aver fatto in bici la Patagonia, il Cile, coast to coast US. Un bell’inizio di giornata, anche perché salutandomi mi fa vedere la bici che ha usato, nulla di speciale, “quello che conta è amare ciò che si fa”. 

Lascio il campeggio sorridendo e mi incammino. Sperlonga, cavoli, non c’è un modo di passarla senza arrampicarsi. Bella, bellissima, però già sento le gambe patire. Poi qualche galleria, me l’aveva detto il ciclista on the road che non c’era modo di evitarle. Ho montato i fari e l’anteriore va oltre le aspettative. Illumina come una moto. 

Giù verso Gaeta, ancora una deviazione tutta in salita, strada bella, ma un gran culo fino a Formia. Sono in Campania e si vede. Tanta spazzatura ovunque, plastica, copertoni e una puzza incredibile che in realtà (forse) è solo concime. Questa è la “polpa” del Sud, diceva Rossi Doria, terra fertile e generosa, che produce frutta e verdura per un sacco di gente. Ripenso alla plastica, vedo fiumi e canali fetidi, speriamo ci sia un futuro per questo territorio, per loro e per tutti noi che sicuramente mangiamo i prodotti di queste terre. E poi su verso Mondragone, falsopiano interminabile che accuso. Ma prima ancora mare, quanto mare in questi due giorni. Mi solleva l’animo.

Divoro due panini che mi prepara una ragazzotta in un alimentari che fa angolo a un incrocio di campagna. Vecchio emporio stile anni ‘80, pochi prodotti sugli scaffali, televisore acceso su una telenovela che mi riporta agli inizi degli anni ‘90, il caldo, le vacanze estive, il primo pomeriggio, niente in tv, prima che l’aria si faccia respirabile e si possa uscire di nuovo.

Riparto e faccio 25 km in piano, dritti, senza nemmeno una curva. Attraverso la piana di Castel Volturno, Casal di Principe, Giugliano, un’ora di paesaggio terribile, deturpato in tutto ciò che non è chiuso dietro a cancelli e recinzioni, al di là dei quali si susseguono magazzini, ex case di campagna abbandonate e una serie di ristoranti-resort per matrimoni pacchiani, una di quelle cose che mi incuriosisce e mi mette a disagio allo stesso tempo.

Finalmente la strada cambia, arrivo a Napoli, da “sopra”, non credo mi fosse mai capitato. Attraverso Chiaiano, passo accanto a Capodimonte, costeggio il Vomero e poi giù in discesa verso il mare, Piazza Dante ed eccolo il Maschio Angioino.

Sono arrivato a Napoli in bicicletta e tutto sommato non è stato così difficile. In bici si può andare dappertutto, mi dico, basta essere allenato e prendersi il tempo giusto.


Il sole scende dietro la collina del Vomero, bevo una birra sul traghetto che mi porterà in Sicilia, il Vesuvio è illuminato da una luce arancione, qua e là degli specchi illuminati come fossero fari: sono le finestre che incrociano esattamente la mia posizione e che restituiscono la luce potente del sole d’estate. La nave parte, Sicilia arrivo.

Oggi ho capito cosa sono le salite

Quanto è bella Palermo. Ho un bel po’ di strada anche oggi, ma non posso non fare un giro per il centro. Mi è sempre piaciuto visitare le città al mattino, quando sono più sincere, perché si mostrano nella loro quotidianità. E il Sud, si sa, è tutto un commerciare, montare banchetti, vivere l’esterno. Dopo un po’ di ginnastica sul lungomare, dove palermitani mattinieri fanno jogging, rimessi a posto gambe e schiena e indossato di nuovo la mia tenuta da ciclista, mi addentro nella città. Entro alla Vucciria, faccio un giro, poi prendo via Vittorio Emanuele, raggiungo i Quattro Canti, via Maqueda e i due teatri meravigliosi. Torno indietro e tiro su per Palazzo dei Normanni, stupendo, ma prima passo per Ballarò e mi perdo tra murales e vicoletti. 


Compro un po’ di frutta, “albicocche così non le trovi da nessuna parte”, so che mi sta coglionando, ma lascio fare (tutina da ciclista, bici con borse, se non sono un passante io…). Sono le 9, apre la libreria e trovo quel che cercavo, per non presentarmi a mani vuote. Salgo in bici e comincio la salita per Monreale. Ce la faccio mi dico, certo è una bella rampa. Vedo il Duomo dal basso, il navigatore vuol farmi arrampicare, sarà la prima di una serie di incomprensioni che dureranno tutta la giornata. Arrivo al parcheggio turistico, giustamente non si può entrare a Monreale in macchina. Chiedo all’ambulante se l’unica via è per le scale. “Sono 98 scalini”, impossibile caricarmi la bici, ma d’altronde da quando sono in viaggio non l’ho mai lasciata. Il tipo mi indica una strada, e anche questa sarà la prima risatina sarcastica della giornata. Costeggio il Duomo, una rampa da paura, non si può fare, devo scendere. Arrivo su già fradicio, c’è un caldo infernale. 

Dodici euro per entrare, cavoli, volevo solo dare uno sguardo di nuovo ai mosaici, a quel cristo enorme che è capolavoro artistico e messaggio chiarissimo: “bada che dio c’è, ti guarda e tu stai attento a quel che fai” (in realtà poi scopro che si può accedere gratis, entro e mi immergo nella meraviglia). 


Un giro intorno al Duomo, ciliegie, dolcetto e un caffè. Sono pronto a ripartire, direzione San Giuseppe Jato. Subito altra salita da paura, sbaglio strada. Su su verso la cima dei Monti che proteggono Palermo. Guardo giù, verso il mare, e mi stupisco di quanta strada si possa fare in così poco tempo, in salita, con la bici. Sto carico ma l'errore mi fa allungare almeno 3 km, in salita. Ce la faccio, già pianifico mentalmente un viaggio sulle Alpi.

Non so che mi aspetta. 


Decido di seguire il navigatore per non commettere più errori, attivo il segnale vocale, ho l’illuminazione al minimo per risparmiare batteria. È questo che mi ha fatto sbagliare strada e solo perché a Cupertino hanno deciso che o senti la musica o ricarichi il telefono (oppure – ovviamente – ti compri le AirPods). 

Allora giro dove dice lui, scendo per una trazzera bella dissestata e poi mi arrampico per una rampa che mi costringe ad alzarmi sui pedali (con tre borse dietro è un’impresa). Piano. Salita. Ancora salita, ripida, interminabile. Arrivo in cima stremato. Sono le 11.30 e faranno 35 gradi. Bevo, mangio frutta, mi faccio una foto e riparto. Discesa, raggiungo i 50 all’ora, giù fino a San Giuseppe Jato, la San Francisco siciliana in miniatura, sali scendi, sali scendi, incroci, incroci, incroci.

Ancora giù in discesa, il paesaggio è incredibile, aperto, vasto, meraviglioso, pieno di luce e di colori. Scendo e salgo, scendo e salgo. Gira a sinistra, 900m (di discreta salita) e gira a destra per lo sterrato. Mi fermo a contemplare una strada di sabbia appena solcata da un trattore che dev’essere stato enorme. Torno indietro, di nuovo super-salita, scavallo la montagna e si apre un’altra quinta stupenda, vigne, grano, ginestre, piccoli laghetti per l’irrigazione. Cielo azzurrissimo, sole, vento. 


Mi fermo a contemplare e a riempirmi di bellezza. Riparto e arrivo a Poggioreale. Devo mangiare, ma qui di lunedì all’ora di pranzo chiude pure il supermercato. Non c’è nessuno in giro, incrocio pochissime macchine, ma tutti mi salutano. In bicicletta tutti ti salutano, non solo i ciclisti, ma chiunque incroci il tuo sguardo. È una cosa bellissima, qualcosa di arcaico direi. 

Ho quasi finito l’acqua, ma ho ancora frutta, sgranocchio una barretta alle mandorle comprata dalla ragazza delle telenovele in Campania. Sento che devo mangiare qualcosa di sostanzioso. In bici devi fermarti a mangiare come se in un viaggio in macchina mettessi dieci euro di benzina per volta. Non ce la fai più? Fermati e mangia. E riprendi con energia. Ma a un certo punto devi pranzare. Percorro 20 km, fino alle 15.45 prima di fermarmi sulla statale 624 al primo e unico distributore che c’è fino a Menfi. Mi fermo, due panini e 2 litri e mezzo d’acqua. Sono stanco morto, ho già fatto più di 300 km in tre giorni e me ne mancano 26. Renate mi scrive che fa troppo caldo, se non ce la faccio mi vengono a prendere. So che non lo farò mai. Aver praticato sport agonistico per tanti anni mi ha fatto capire che c’è sempre una riserva di energie. È una questione di testa, di concentrazione, molto più di quel che si possa pensare. In bici, in salita, significa sguardo fisso sulla striscia bianca, un metro oltre la ruota davanti, spalle distanti dalle orecchie, braccia rilassate, respiro regolare. 

Percorro 10 km in lieve discesa, vado forte, ma il caldo incalza terribile e poi c’è la digestione. Sulla mia destra colline. So che quella è la mia direzione e so che non ci saranno gallerie a risparmiarmi. “Tra 900m lascia la statale e gira a destra”. Col cazzo, un altro sentiero che manco con la macchina ci sali. Tiro dritto, guardo la mappa, rimango sulla statale, secondo me gira intorno alle montagne. Ricalcola percorso, “torna indietro”. Ricalcola percorso cazzo! “Torna indietro”. Fanculo, non ci torno indietro. Tiro dritto per la statale, voglio vedere quando ricalcoli. È un falsopiano che percorro a 20-22 all’ora, ho fatto bene, lo sapevo. Curva a destra, superate le colline mi aspetto il mare e invece… altre colline. Sguardo lungo, in alto, non può essere la strada che arriva fin lì. E invece è la mia strada che va proprio lassù. Sguardo fisso sulla riga bianca, respiro regolare, ritmo costante. 

Faccio 4 km di salita dura, ma dura da morire, rapporto più leggero e arrivo su. Mi fermo. Acqua. 5 km all’arrivo, ci sono, avanzo. 

Il mare. Oltre il mare, l’Africa (non la vedo ovviamente, anche se Saverio poco dopo mi farà inquadrare Pantelleria), ma l’idea mi rende euforico. 

Discesa, dritta, lunga, liberatrice e - rarità - senza buche. Mi lancio giù a oltre i 50 all’ora. “Gira a destra”, sentiero tra campi, lieve curva in discesa, mancano 750m… oh qui è troppa discesa. Non vedo più il mare, no! Rampa di 200 metri che sarà al 38%. Imprecazioni, marcia più leggera, mi alzo sui pedali. Rumore, un trattore imbocca in direzione opposta. Tre metri di strada, occhi negli occhi con il contadino che mi guarda come a dire “ma ‘ndo cazzo vai…”. Famme passa’, gli urlo, e lui si sposta con risatina sarcastica. Imprecazioni, fiatone, gambe di legno, vai dritto, svolta a destra e sono arrivato. 

Saverio e Renate. 

Già so che ne è valsa la pena.

Renate e Saverio

È passato qualche tempo. Arrivo stremato, mi offrono acqua, una granita al limone che è come oro in bocca. 

Chiacchieriamo subito, perché è tanto che non lo facciamo di persona. Non sono invecchiati per niente. Sono sempre due persone stupende. Renate e Saverio sono diversi tra loro, ma si sono scelti da grandi e tutti e due sanno perfettamente quanto vale il loro star bene. La stanza per me è bellissima, un letto grande e comodo dopo due giorni complicati per il mio sonno. Parliamo fitti fitti, come sempre Renate è un fiume di racconti, di “persone straordinarie” che conosce da tanto tempo o che ha appena conosciuto, che fanno cose incredibili con persone difficili, in posti difficili, coinvolgendo gente, rompendo le palle “a politici col culo stretto”. Insomma, è sempre Renate.

Saverio silenzioso, sguardo attento e obliquo, sempre gentile, poche parole, frasi sospese. E capacità di attendere l’elaborazione dell’altro. Lui siciliano, lei tedesca. Un classico no? Invece niente di classico, soltanto due persone bellissime, fuori dal comune, coraggiose e vicine, amiche di tutti ed isolate, in questo Sud che più Sud non si può, dopo una vita in giro, lei a fare cooperative, a sostenere gente appassionata e controcorrente, lui a misurare, a riprogettare ruderi, a ridar vita a spazi di convivenza, senza sprechi, con un’attenzione costante alle umanità che dovranno viverli. 

Il giorno successivo mi alzo, una gran dormita e una colazione con una marmellata al limone buonissima. Chiacchiero con Renate, lei parla tanto, ma ascolta, guarda, elabora e capisce. Sì, Renate capisce le persone che ha davanti. Lei lo fa in un modo, Saverio capisce in un altro. E tu ti senti compreso, a casa, tra amici a cui affideresti la vita. Per me è una nuova sorpresa, ma è anche una conferma. È gioia pura averli tutti e due come amici.

La casa. Mille dettagli pazzi di Saverio. Il tocco di Renate, le galline, il gallo Anando, due oche. Ulivi ovunque. Sul retro una struttura non finita che sarà “la cucina di Renate”. Manca il tetto, manca un muro, ci sono due finestre grandi, una guarda il mare, due oblò. Sguardo obbliquo di Saverio, sorriso sornione, “non manca niente”. O meglio qualcosa manca, “vieni a vedere”.

Quello che vedo nei due ambienti che ora sono un’officina, ma che presto saranno un luogo dove Saverio vuole “parlare di olive con le persone, intorno a un tavolo”, dicevo, quello che vedo è incredibile: c’è una colonna davanti a me, che Saverio sta costruendo con l’aiuto di Gaspare, un operaio della mia età piccolo, siciliano e silenzioso, con alle spalle 20 anni di emigrazione in Piemonte. 

Una colonna “Tuscanica”, di due metri e trenta, con base e capitello, che ha tirato su con strumenti costruiti da lui, nelle proporzioni esatte insegnate dal Vignola. Ed è lì, davanti a me. Ci sono macchine e attrezzi che sembrano venuti fuori da una bottega artigiana senza tempo. Ma quello è solo un modello, intorno stanno fissando degli stampi in vetroresina perché le due colonne vere, che verranno (lo stampo, bellissimo, andrà distrutto), saranno posizionate all’ingresso della cucina finita e non finita. Saverio, artigiano e artista, è ironico e geniale. 

Pranzo, uova delle galline, olive, insalata del campo, formaggio, pomodori e olio. Renate cucina da dio, loro mangiano esattamente come avrei voluto mangiare se me l'avessero chiesto, solo quel che offre la terra – e non è retorica – perché se c’è un posto che se lo può permettere quel posto è la Sicilia, ricca, abbondante, piena di sapori.

Sto tre giorni da Renate e Saverio, visitiamo Sciacca, Menfi, il parco archeologico di Selinunte (che mi è rimasto addosso), e un pomeriggio tra vigne e ulivi a fantasticare, neanche tanto, su un frantoio con cantina annessa, da realizzare in un campo dalla terra bianca bianca.

I pappataci fanno man bassa dei miei polpacci. “Hai mai visto un contadino con i calzoni corti?”, mi dirà coglionandomi un po’ Renate il giorno dopo, mentre mi gratto e mi lamento per i pizzichi che patirò per giorni e giorni.

Favignana

Decido di resistere agli inviti di Renate e Saverio a rimanere fino a quando posso. Abbiamo creato un’atmosfera che piace tanto a tutti, infatti quando ci salutiamo non facciamo altro che ringraziarci a vicenda. Tornerò, gli dico, e forse anche a breve.

Dovevo partire, la bicicletta che non ho toccato per tre giorni mi mancava e il mio era un tour in bici. Quindi mi metto in sella e tiro dritto verso Mazara del Vallo, destinazione Marsala, dove mi aspetta l’imbarcazione che mi deve portare a Favignana. Il giorno prima ho preso il biglietto, ma mentre mangio un cous cous a Mazara, dopo una tranquilla traversata, faccio una telefonata alla compagnia per farmelo mandare perché non l’ho ricevuto via email. Sono molto rilassato, sono le 14.30 circa, sto mangiando, ho pochi chilometri e tempo fino alle 17.30, quando parte la nave. Non è una nave, ma un aliscafo. Mi dicono che la bici non può salire, se non pieghevole. Per andare a Favignana bisogna prendere il “traghetto grande” che parte da Trapani. Cerco frettolosamente sul sito gli orari: ultimo imbarco 17.10.

Ricapitolando, due minuti prima ero tranquillo che finivo il mio cous cous di pesce (mi son fatto anche un calice di vino) perché consapevole di avere 2 ore e mezza per raggiungere Marsala, due minuti dopo mi ritrovo a cercare un modo per fare il doppio della strada in 2 ore scarse! Che faccio? Vado col treno? Ho visto la ferrovia lungo il percorso, ma niente, arriva alle 17.05, troppo a ridosso. Chiamo Saverio e Renate, mi faccio venire a prendere col furgone e portare a Trapani? Ma de che, come si fa. Oh, io provo, sono 52 km da fare in 1h e 50’. So che la strada è piatta, se vado a una media di 30 all’ora ce la faccio (nei giorni scorsi avevo constatato che la mia velocità è di circa 20 all’ora).

Devo fare pipì, ma non ho tempo. Tiro, tiro come un matto, per superare Marsala ci sono un po’ di incroci e di percorsi bizzarri che mi fa fare il navigatore. La media si abbassa di qualche chilometro orario. Tiro, tiro in modo forsennato, sto tra i 28 e i 29 all’ora, ho margine. Mi dico che devo arrivare almeno 20 minuti prima, ebbene, alle 16.50 sono a Trapani! Faccio il biglietto, monto sul traghetto e mi prendo una birra. 

Credo che mi sia appisolato lungo il tragitto, finché non arrivo a Favignana, che mi piace subito, nonostante il primo impatto sia tutto turistico. Vado al campeggio che dista 2 km e monto la tenda. Vicino a me una tendina, arriveranno due ragazze che vivono a Firenze, una toscana, l’altra argentina. Argentina di dove? Della Patagonia ovviamente, come sarà della Patagonia anche il tipo che mi vende il braccialetto che ora porto al braccio.

Passerò una giornata a girare per l’ala piccola della farfalla Favignana, tra cave di tufo, spiagge e calette stupende. Farò bagni e mi brucerò per bene. La seconda sera sono a cena da solo in campeggio, mi arriva un messaggio di mio fratello: “te stai a rompe di’ la verità”. Non direi, rispondo, ed è la verità, ma in quel preciso momento, in un posto turistico, da solo, effettivamente mi stavo un po’ rompendo. La mattina mi avevano avvisato di avermi spostato la nave per Civitavecchia di un giorno, lì per lì pensavo di farmi un’altra giornata di mare, ma poi il messaggio di Gualberto mi accende la lampadina. Domani parto.

Alle salite non ci si abitua

Dopo due notti a Favignana, bellissima, parto dunque per Scopello, direzione camping Ciauli, che mi ha convinto perché bello fricchettone e sotto gli ulivi. Mi sono fissato infatti di dormire sotto la pianta dell’olio sacro, come dice Saverio. 

Sbarco a Trapani alle 9.30 e mi faccio un giro per questa città tutta proiettata a ovest. Il centro è un gioiello, girovago un po’, un paio di cassatine in una piccola pasticceria nascosta, un caffè e via. 

Via si fa per dire, nell’arco di pochi minuti decido di andare alle saline (ma non vado, direzione opposta), a Erice (troppa salita), per le montagne (mamma mia le salite, ma sto carico) e infine opto per la costa, giro intorno al Monte Erice, appunto, e poi una bella salita, ma che vuoi che sia. È. 

Non capisco che problemi hanno i siciliani con i tornanti. Devono attraversare un monte? Beh - almeno secondo kamoot, opzione gravel (capirò dopo l’errore) – facile, dicevo, si taglia una linea perpendicolare alla base della montagna e si va a pendenze incredibili. La prima riesco, mi fermo, ansimo, bevo acqua, tolgo una maglietta già fradicia e metto la tutina. Riparto. La seconda? Troppo verticale, cavoli, devo scendere gli ultimi 50 metri. Mentre spingo vedo un signore anziano arrivare da sopra su una bici da corsa. “La faccio spesso questa” e si schernisce di me. Ma io sto carico di pesi! Niente, per lui conta poco. Il navigatore dice a sinistra, lui pensa sia meglio a destra, “è più lieve”. Più lieve una minchia, almeno fino a un certo punto sì, poi, “svolta a sinistra”. Rampa, come quella di prima, ma più corta. Reggo. Ancora un po’ di sali e scendi (più sali che scendi), mi fermo e bevo. Mangio una barretta, penso alle due cassatine, mi sa che ho fatto una cazzata. Bevo ancora. Riparto, è mezzogiorno passato, faranno 40 gradi, domenica, nessuno in giro, nei paesi che attraverso tutto è chiuso, tutti i bar serrati per la pausa pranzo. Vado. Si apre il panorama, il monte Erice alle spalle (praticamente la cima è alla mia altezza), la piana di Trapani sotto, Marsala a sinistra, lontano tra la foschia Favignana ben visibile, bella e sinuosa, lontana, e penso “stamattina mi sono svegliato li”. Tornerò. E poi campi, di nuovo tante vigne, grano, ginestre, tutto è ampio, è tutto stupendo. 

Vedo la cima della montagna, dicevo, esco dall’ultimo paesino, riempio le borracce a una fontanella con rubinetto miracolosamente attiva: acqua bollente, caldissima, calda, tiepido calda, tiepida, punto. Fa niente è acqua. Insomma, salgo e il navigatore mi manda a sinistra. Rampa, rampissima. Metto su la marcia più leggera e mi alzo in piedi sui pedali. Braccia morbide, addome attivo, equilibrio. Ritmo. Quanto durerà? Sposto lo sguardo da un metro davanti alla ruota anteriore di tanto in tanto. Non c’è fine, curva, continua imperterrita. Ho un fiatone da paura, fa caldo, caldissimo, penso, mo collasso. No, ci sono, vedo la fine e arrivo. Mi fermo. Boccheggio, boccheggio. Non smetto di boccheggiare. Bevo acqua, l’ultimo dei tre integratori per i momenti critici (più critico di questo), io, pecore, pale eoliche e vento. 

Tutto intorno un paesaggio perdifiato, nonostante la foschia che comprova la temperatura è l’umidità. La salita però non è finita, più lieve ma c’è, finché arrivo, imbocco in discesa, solita trazzera infame piena di sassi tutta in discesa, e arrivo giù a un paese deserto. Mi fermo vicino a un giardino, un signore si affaccia e mi dice che fa troppo caldo per andare in bici. Ha ragione, dal suo punto di vista (domenica di giugno, ore 14, tutto sonnecchia lontano dal sole) io gli devo essere sembrato quantomeno bizzarro. Salgo ancora e finalmente un discesone che faccio a palla. Finché dietro a una curva spunta un punto ristoro con scritto Bikers welcome. Non posso non fermarmi. Tipo simpatico, scherzando mi propone di caricare la bici sul suo furgone per quanto gli sembra assurdo quel che sto facendo, visibilmente stremato con questo caldo. 

Manca poco, dopo due panini cunzati e tanta acqua, sono quasi arrivato. Bivio a sinistra discesone cazzo, penso che per muovermi da questo campeggio sarà dura. Quel campeggio fricchettone no? Talmente fricchettone che è abbandonato e nessuno ha aggiornato il sito. Poco male penso, qui con questa rampa sarebbe stata una fatica. Basta, voglio fare il bagno. Cerco un camping sul mare, la risposta c’è, è a 6 km e sta a Castellammare del Golfo, per Scopello facciamo la prossima volta dai. Imposto bici da strada (no gravel che ti fa passare ovunque riesce a passare una pecora o una vacca, ci arrivo, tardi, ma ci arrivo) e vado. 

Giungo al campeggio Nausicaa e mi sistemo, sotto un ulivo ovviamente, un bagno, una birra e mi spiaggio sulla sabbia ancora caldissima. Italia-Galles è alle 18, riemergerò verso le 19.30, ma almeno vedo gli ultimi 20 minuti. 

Penso alle persone importanti della mia vita, che sono state presenti, leggere e intense, lungo tutto questo viaggio bellissimo. Sono stato solo e sono stato bene. Senza colpe né doveri, senza malinconie né tristezze. E la vita va. 

La nave

E così dopo l’ultima fatica siciliana mi dirigo di nuovo verso Palermo, partendo con un buon anticipo. C’è scirocco, fa caldo ed è appiccicoso, l’aria è densa e la luce ovattata. Puoi guardare il sole con lo scirocco e non perché sia poco potente, ma solo perché è poco lucente. 

Al mattino mi sono svegliato nel campeggio di Castellammare. Pensavo fossero le 8.30 ma, non ci vedo più, erano le 6.30. Il camping è troppo arrangiato, conduzione familiare con padre fondatore ottantenne (lì presente), figlia sveglia e figlio rincoglionito, che sembra non capire proprio le domande. Insomma, decido di andare a fare colazione verso la spiaggia, la sera prima era pieno di luci, sicuramente ci sarà un bar. Penso che un luogo di mare sia davvero bello quando si mostra per quel che è anche al mattino. Invece questi locali tutti sbrilluccicanti la notte, la mattina lasciano (almeno qui) spazzatura e disordine e si mostrano per tutti i limiti che hanno. C’è però anche una spiaggia completamente accessibile e mi domando da dove sia venuta questa sensibilità. Il bar comunque non c’è, tutto è chiuso e sono quasi le 8. Chiedo a un signore, che mi dice che la colazione si può fare all’ultimo bar infondo. Entro, buongiorno, due tipe più da sera che da mattina dietro il bancone manco mi rispondono. Faccio colazione e torno alla tenda via spiaggia. Mi preparo, comincio a smontare tutto, ma mi interrompe una signora simpatica di Modena facendomi un sacco di domande sulla bici, lei che fa 50 km al giorno a casa sua e che qui le manca tanto pedalare al mattino. 

Sono pronto, parto e mi incammino verso lo Zingaro. Paesaggio diverso, alte montagne sulla mia destra, pareti di roccia verticali e affascinanti. Osservo, ma non fotografo. Lo scirocco si sente. 

La strada procede comunque tranquilla, stavolta ci ho preso con l’itinerario, qualche salita anche ripida ma breve e tanto tanto mare. Balestrate, Trappeto, Terrasini, Cinisi, Carini, Capaci, Isola delle femmine. Tanta mondezza qui, sembra di stare in Campania, stesso contrasto con ville non belle ma ricche, baracche, case abbandonate e palazzine non finite. Fuori, negli spazi comuni, tanta zozzeria. Mi sono sempre chiesto cosa spinge una persona a uscire di casa, portare in macchina il sacchetto della spazzatura, fermarsi, o manco fermarsi, e buttarlo a bordo strada. Davvero non capisco dove sia il vantaggio rispetto a depositarlo in un secchione. Non mi pare tanto più comodo. Bah. 

Vedo la montagna di Palermo, passo Mondello e tiro dritto. Caldo infernale. Sono in anticipo, stavolta mi compro la cena, un giro veloce ancora per il centro e salgo sulla nave. 

Atmosfera strana, la nave è grande e vecchia. Arredi vetusti. Ma noto che sono tutti arabi, incrocio una moschea (!), in un corridoio la tv appesa manda trasmissioni in arabo (quelle dov’è c’è una donna che canta, qualche immagine floreale, sottotitoli in arabo) e mi chiedo che tipo di situazione è. Cerco su google ed è una apertura culturale che ha fatto la compagnia a favore dei suoi clienti. 

Sto per conto mio su una sedia a contemplare il mare, quando spunta un tipo che mi guarda. Penso pure per un attimo che sia della sicurezza, poi si avvicina e attacca bottone. Si chiama Simone, 38 anni, tipo simpatico, ex-cuoco che ha girato il mondo, attuale guardia giurata a Cesena, gay, e stanco di girare, “di essere felice”, dice lui, e quindi con la voglia ora di star fermo a far poco e niente. Mi pare strano, dico che io sono in una situazione opposta, voglio cercare situazioni nuove, che mi facciano star bene e ho una gran voglia di girare. 

Entriamo in confidenza, tra una birretta e un’altra ci raccontiamo la vita. Sicuramente lui un po’ ci prova, ma ci può stare, poi capisce che non è aria e demorde. Simone alla fine è un tipo solo, non in grado di condividere, dice ancora lui, che presenta una maschera per affascinare, ma come disse una volta una tipa a un incontro LeMat, è evidente che, come tutti, ha bisogno d’amore. Non so, mi ha dato l’impressione del ragazzo gay siciliano, terzo figlio di quattro, della provincia di Ragusa, che è finito a fare l’amante di molti e l’amato di nessuno. Ci salutiamo il giorno dopo, rincontrandoci sul molo. “In bocca al lupo”. A te.

Il senso di un viaggio

Il bello è che un "senso", in realtà, il viaggio non ce l'ha.

Se per senso intendiamo un obiettivo, il viaggio non ce l'ha. Questa esperienza mi ha insegnato un po' di cose. Viaggiare aiuta ad affinare il sentire, a lasciare andare un po' il capire, a osservare per godere, a mettere a fuoco qualcosa di nuovo, che ci piace, e a lasciare andare quello che invece davvero non ci serve. 

Poi ho capito che muoversi, viaggiare, è una questione di mentalità. Nell'andare in bicicletta per così tanti chilometri, mi sono reso conto che questo modo lento di spostarsi, tutto alimentato dal proprio corpo, può apparire alle persone "strano", "assurdo" o "figo", ma pur sempre qualcosa che quasi nessuno fa.

Forse ha a che fare con l'essere sportivi, che in estrema sintesi significa infilarsi in quel cuneo di piacere che c'è tra la sofferenza fisica e la soddisfazione di averla sprigionata. È qualcosa di erotico, mi sentirei di dire, come modellare l'argilla per realizzare vasi – aveva argomentato Saverio nel suo laboratorio artigiano. 

Poi certo c'è la competizione e viaggiare da solo mi ha confermato, sotto altre vesti, quel che il rugby mi ha insegnato tanto tempo fa e cioè che nello sport bisogna anzitutto superare sé stessi, andare oltre ciò che si crede impossibile. 

Pedalare chilometri sotto il sole cocente, all'ora di massimo caldo, quando tutto è fermo, è un po' folle. Me l'hanno detto, a voce o con lo sguardo, parecchi siciliani in questo mio percorso. Ma mi è sembrato mi dicessero anche che la controra si rispetta, perché nella Sicilia rurale, la gran parte della Sicilia, la controra la continuano a onorare e hanno tutta la mia stima per questo.

I tempi in campagna li tiene la terra, a tutto ci si è adattati, “basta osservare le piante”, mi ha detto Renate. Le piante hanno pazienza, si adattano con estrema calma, ma si adattano sempre. Ce l'ha detto, con tutto il trasporto del mondo, Leonardo, un agricoltore, consulente agronomo, colto e appassionato, sicuramente generoso e con l’idea irresistibile di realizzare un frantoio e una cantina con Saverio e Renate. Ma in Sicilia è tutto difficile, la cultura domina ogni cosa da sempre e qualcosa in Sicilia è andato storto nell'ultimo secolo, secolo e mezzo. Non conosco i dettagli, ma è chiaro che nella sua lunga storia, antica. potente, piena di sorprese, questo declino civico ha lasciato andare il senso dell'armonia con gli spazi naturali, ha riempito buche di cemento, dove sono sorti, palazzoni, palazzi e palazzine tutti con lo stesso difetto: sono brutti. Tutto intorno, la meraviglia.

Per fortuna nella Sicilia rurale questo contrasto è meno evidente. Qui la mano dell'uomo ha pettinato le colline, con vigne, uliveti, arance, melograni, mandorli e tanto altro. La Sicilia non avrebbe alcun bisogno di emulare, dovrebbe guardarsi dentro e si vedrebbe per quel che è: ricchissima. Ricchissima di biodiversità anzitutto, che rende assurdi i trattamenti da agricoltura estensiva propinati dalle grandi economie nordamericane, quel modo di trattare la pianta, “reputandola stupida” – sembrerebbe dire ancora Leonardo – incapace di trovare la via propria per la cura. Certo la mano dell'uomo è indispensabile, ma per accompagnare, per assecondare, per trovare rimedi naturali (come un'erbetta antibiotica che aiutano a crescere tra la vigna e che ci ha fatto assaggiare). La Sicilia è patrimonio archeologico e artistico vastissimo, probabilmente più nel potenziale che in quel che già oggi può offrire. La cultura, l'arte, l'architettura è ovunque imponente, poderosa – non c'è paese che non abbia un palazzo importante, non solo le facciate delle chiese.

Ancora Leonardo soffre questa incapacità di vedere quanto sia sufficiente "far fare alla natura", senza dover intervenire in modo aggressivo, con sostanze chimiche, veri e propri farmaci che con l'arroganza tipica del capitalismo, ha persuaso molti, moltissimi, sull'esclusività del breve, della cadenza della vita che non alberga più negli spazi e nei tempi della natura, ma è condizionata da cicli di bilancio, da fatturati e da rese, che impoveriscono gradualmente le risorse che dovrebbero invece valorizzare.

Per vedere questo, chissà, la seconda laurea in filosofia di Leonardo qualcosa ha significato. Studiare filosofia in Sicilia, in fondo, cosa c'è di più naturale? 

Renate e Saverio, lei tedesca, lui siciliano dicevo. Ecco, ora che è comparsa l'immagine stereotipata della coppia europea per antonomasia, si può pure cancellare. Renate e Saverio non somigliano a nulla, sono loro, meravigliosi. Belli in tutto, nelle loro fisse, nelle loro debolezze, nella loro assoluta libertà. Saverio in questo è unico. Tutti dovrebbero osservarlo per come lavora, che è del tutto fedele al modo in cui dialoga, con pause, riflessioni, slanci, luce negli occhi e sorrisi sornioni. Quanto ci vuole per chiudere la colonna Save'? "E' chi lo sa, possono succedere tante cose, ora vediamo". Hai fatto il conto dei blocchetti necessari per incorniciare le porte con l'arco (quelli che ho la fortuna di contribuire a realizzare, con tanto di calchi, impalcatura, colata di cemento e armatura). Dicevo, Save', quanti ne devi fare? "Eh, adesso vediamo, qualcuno potrebbe rompersi, e poi che ne sai che viene bene? Se viene brutto bisogna rifarlo".

Tutto così, ma attenzione, non è disorganizzazione, non è che davvero non ha fatto i suoi calcoli, che se c’è da lavorare duro non lavori, ma lui quando può, approccia così. Determinato, sa sempre quale passaggio fare, ma con calma, ascoltando e osservando ogni reazione del contesto, a partire ovviamente dal materiale che lavora, fino ad arrivare alle persone che si trovano a occupare l'ambiente con lui in quel momento.

Non c'è fretta, bisogna prendersi cura dei passaggi e se c'è qualcuno che vuol capire, ne parliamo, potrei imparare qualcosa anch'io. Questo è Saverio. Come fai a non amarlo?

E infatti Renate lo ama, si sono scelti e conoscono e accettano e amano anche le debolezze l'uno dell'altra. Renate è sempre lei, si infervora, si incazza - ma non in generale, proprio con te che ci stai parlando - e in quel momento Renate è Renate. Battagliera, mai paga, piena di energie, di idee, di immagini che ti rovesciano il cervello in un attimo. Renate ti sorprende sempre. Come fai a non amarla?

Ecco, questi sono stati i miei tre giorni di metà giugno, 2021, a Menfi, provincia di Agrigento, in una casa in mezzo a un campo di ulivi, palma che svetta, tonda, sana, e officina vivente di un artigiano-artista tutto particolare. La casa è accogliente, è piena di colori e di profumi, c'è una bella energia e questo perché c'è Renate. E tutto è bellissimo ed è al suo posto. Questi sono stati i miei giorni con Renate e Saverio, qualcosa che ormai è con me e che non va più via. 

Poi c’è stato l’altro viaggio, quello in solitaria, delle ore sul sellino, col culo che si addormenta, che formicola, con la pianta del piede che fa male, musica nelle orecchie, sguardo ampio a far pieno di bellezza quando si può, basso sulla ruota davanti quando c’è da soffrire in salita. Ciclisti che salutano, persone che si fermano, che chiedono, che danno consigli. 

Silenzio, cielo, vento, onde del mare e tanto sole. Storie locali, brevi battute, belle conversazioni, racconti di viaggio, di passioni. Ho stretto una sorta di immediata confidenza con tutte le persone con cui ho parlato, chissà, forse per il fatto che ero solo. Sono loro le persone con cui ho condiviso il mio viaggio, sono state loro dentro il mio viaggio in solitaria. 

E questo, in qualche modo, le rende tutte, e tutte insieme, uniche.



 10 notti: 4 in tenda, 4 su un letto, 2 in nave, 3 regioni e 7 province attraversate 

700 km percorsi  Tanta bellezza



Powered by Blogger.