Travagliare. Rispecchiamenti e posture.

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"Piacere signora, è venuta a travagliare?"
Questo quanto, più o meno, ho potuto cogliere dal saluto di Salvatore al mio arrivo a casa di Saverio e Renate domenica sera tardi; tardi per me per essere più lucida e distinguere meglio le parole. In fondo in fondo saranno state le 21.00 ma io non capivo già più un cazzo.
Di Salvatore mi ero creata un immaginario ben dettagliato a partire dai racconti espressionistici di Renate.
Mi aspettavo un sacerdote del lavoro dei campi, l'officiante della raccolta delle olive, il ministro del culto.
Ora ce l'avevo davanti e dentro di me quel sacro terrore verso il celebrante non si placava.
Già c'avevo l'ansia prima di partire, ansia di poter apparire del tutto inadeguata a travagliare nei campi. Io che sembro sempre una ragazzina, io che peso meno del vento e che sono vestita come una borghese.
Io che potevo vantare al più qualche giornata da "fiola" a Montemalbe "arcoglie coi mi nonni" e qualche giornata trenta anni dopo "a fa casino coi mi fioli intorno ai piantoni degli olivi del mi babbo".
Come avrei fatto?
Ma io sono una mente assorbente e assorbirò anche dalla cena che sta per iniziare, mi dicevo, una sorta di cambio della guarda fra Elisabeth e me; chi parte e chi arriva in questa casa senza porte , senza portali, senza appartenenze e barriere.
Salvatore a capo tavola, ovviamente.
Non racconterò la cena, ci vorrebbe un romanzo a parte.
Racconterò come mi si è trasfigurato Salvatore e come la mattina successiva ho potuto rispecchiarlo.
Uno che non riesce a stare seduto su una sedia per troppo tempo, un corpo rotto, dritto su una scala a raccogliere anche per 8 ore, però.
Uno che non mangia artefatti culinari del tipo la besciamella, una sofisticazione pericolosa.
Uno che beve solo vino fatto in casa dal contadino e diffida dalle etichette anche se provengono dalla cantina sociale che per farla nascere ci sono volute le rivoluzioni dei padri e delle madri.
Dunque non so dirvi se mi sentivo meglio o peggio.
Però le 6.30 sono arrivate presto.

Non sarà stato un caso se l'ingresso nel campo l'ho fatto dietro a Salvatore che, pochi passi davanti a me, manco s'è accorto che c'ero; ma io già lo copiavo.
Copiavo come camminava, dove metteva i piedi, come li metteva.
Copiavo dove teneva le mani.
Saverio aveva già dato il via alla coreografia.
Sul palcoscenico eravamo tutti.
E io copiavo.
La mia maestra di danza, Monica Santucci, dice che la danza è emulazione. I bambini apprendono copiando, copiando la maestra, copiandosi fra di loro.
Una illuminazione.
Esco dal tempio delle mie meningi e entro nel tempio del mio corpo, del gesto.
E modestamente questo lo so fare!

Approccio l'olivo come un partner, attacco la danza della raccolta.
Le fronde sono braccia che accarezzo, un pò energicamente.
Sfioro, sfrego, liscio.
Strappo, carpisco.
Rastrello, pettino, raccapezzo.
Raccolgo i frutti, prendo vantaggio, approfitto.
Rispecchio le posture di Salvatore e di tutti gli altri e le altre presenti.
E ste olive vengono via che è un piacere!
E quando cadono dentro alla canestrina suonano. Battono. Un canto di tamburo.
Ho il ritmo, ho il gesto, ho la compagnia. Sono a casa.
Posso allontanarmi anche dalla vista di Salvatore, posso osare un assolo con un ballerino-alberino di Biancolilla che me lo faccio tutto da sola!
Signore e signori, la raccolta delle olive non è più un rito che mi spaventa, ma un teatro che mi chiama.
Salvatore non è un ministro, ma un maestro.
Uno che sa come vivere con gli altri senza essere né servo né padrone!





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